L'alveare by Camilo José Cela

L'alveare by Camilo José Cela

autore:Camilo José Cela [Cela, Camilo José]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Utopia
pubblicato: 2024-03-30T23:00:00+00:00


In calle de Santa Engracia, a sinistra, vicino a plaza de Chamberí, abita doña Celia Vecino, vedova Cortés. Suo marito, don Obdulio Cortés López, commerciante, era morto dopo la guerra, in seguito, a quanto riportava l’annuncio funebre del giornale ABC, alle sofferenze patite durante la dominazione rossa.

Don Obdulio era stato per tutta la vita un uomo esemplare, retto, onesto, dalla condotta irreprensibile, quel che si dice una perla d’uomo. Si era occupato sempre con gran passione dei piccioni viaggiatori e, quando era morto, gli avevano tributato un sentito e affettuoso ricordo in una rivista specializzata: una sua fotografia, di quando era ancora giovane, con in calce questa scritta:

«Obdulio Cortés López, illustre magnate della colombofilia ispanica, autore delle parole dell’inno Vola senza ostacoli, colomba della pace, ex presidente della Società reale colombofila di Almería, e fondatore e direttore di Colombi e colombai (bollettino mensile con notizie di tutto il mondo), che fu una grande rivista, al quale rendiamo, in occasione del suo trapasso, il più fervido tributo di ammirazione insieme con il nostro dolore».

La fotografia appariva circondata, tutta quanta, da uno spesso bordo nero. La scritta in calce era stata redatta da don Leonardo Cascajo, maestro.

La sua signora, poveretta, per vivacchiare affitta a qualche amico fidato delle stanzette di pessimo gusto, in stile cubista e di colore arancione e azzurro, dove alle scarse comodità si tenta di supplire, fin dove è possibile, con la buona volontà, con la discrezione, e con il vivo desiderio di compiacere e di servire.

Nella stanza sul davanti, che è in un certo senso quella di riguardo, quella che viene riservata ai clienti migliori, don Obdulio, da una cornice dorata, con i baffi all’insù e lo sguardo dolce, protegge, come un malevolo e astuto piccolo dio dell’amore, la clandestinità che permette alla sua vedova di mangiare.

La casa di doña Celia trasuda tenerezza da tutti i pori; una tenerezza a volte asprigna, a volte anche un po’ velenosa. Doña Celia ha accolto in casa due bambini, figli di una nipote morta un po’ per i dispiaceri e le pene e un po’ per avitaminosi, quattro o cinque mesi fa. I bambini, quando arriva qualche coppia, gridano festosi lungo il corridoio:

«Evviva, evviva, è venuto un altro signore!».

Quegli innocenti sanno che l’ingresso di un uomo con una signorina al braccio vuol dire cibo caldo il giorno dopo.

Doña Celia, il primo giorno che Ventura si era presentato in casa sua con l’amante, gli aveva detto:

«Guardi, l’unica cosa che le chiedo è la decenza, molta decenza, perché ci sono dei bambini. Per l’amor di Dio, non provochi scandali».

«Stia tranquilla, signora, non si preoccupi, sono un gentiluomo».

Ventura e Julita solitamente entravano nella camera alle 3:30 o alle 4 e non se ne andavano fino alle 8 suonate. Non li si sentiva neppure parlare; era un vero piacere.

Il primo giorno Julita si era mostrata molto meno turbata di quanto normalmente accade; si interessava di tutto e su tutto aveva da fare commenti.

«Che orrenda quella lampada, guarda bene, sembra un irrigatore».

Ventura non trovava che il paragone fosse azzeccato.



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